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Trebisacce (Cosenza) - Giornata mondiale della lingua madre, il pensiero di Mazzotta, la poesia di De Vita


Una casa dalle pareti intonacate”.  In ogni paese del meridione, nascosta in piena vista dietro una svolta che in pochi percorrono, c’è una stradina impervia che si arrampica ai confini dell’abitato.

Alla fine di quella via c’è una casa. Non è ancora antica, non è più vecchia.

Un tempo qualcuno ci ha abitato. Un tempo il focolare del camino era acceso. Un tempo qualcuno ha giocato, riso, impagliato la seduta di una seggiola sull’uscio di quella casa.

Le pareti sono del colore di un abito da sposa indossato più volte.

Appaiono, a chi si inerpica per quella strada e giunge davanti la casa, come qualcosa di improprio, di posticcio, di illusorio.

Qualcosa è fuori posto. Qualcosa stona.

Le pareti della casa sono intonacate. Appaiono lisce, imperfette ma omologate l’una alle altre.

Scorrendo la mano sulle mura, provando a leggere quel susseguirsi di materia come un non vedente legge un libro scritto in Braille, la storia raccontata ci appare sottratta di un elemento: il tempo.

Il paese, la strada, la casa, la solennità del luogo non si rispecchiano in quelle pareti prive di tempo e storia.

Non è quello infatti l’aspetto con cui la casa fu eretta, con cui fu immaginata.

Se grattiamo l’intonaco bianco, sotto una parvenza di convenzionalità, ci aspetta una sorpresa antica.

Le mura sono fatte di mattoni realizzati a mano, uno per uno.

Ognuno di essi è irregolare e unico.

Oppure ad attenderci dietro un bianco che non ha nulla da raccontare, ci sono delle pietre di fiumara, ricche di storie, trasportate dalle montagne al mare, e dal mare, con lentezza cerimoniale, in quel luogo, per essere scheletro e corpo di un sogno di stabilità.

La verità si nasconde dietro la voglia di omologazione, e chiude nel suo grembo storie e tradizioni.

Quella casa è il nostro linguaggio. I mattoni irripetibili o le pietre narranti sono il nostro dialetto. Nascosto forse. Dimenticato, a volte. Ma solido e stoico nel suo essere.

Su quella strada nascosta in piena vista cammina, senza mai stancarsi, conoscendo e riconoscendo ogni sasso o filo d’erba che incontra, il professore Piero De Vita, custode di una memoria di cui ha ricercato, fin da ragazzo, le radici, consapevole che essere radicano l’albero della vita passata, l’albero della memoria, i cui frutti sono dolci su labbra ingiuriate dal tempo.

Il Professore De Vita siede su uno sgabello fatto a mano e volge lo sguardo a quelle mura.

Le accarezza e poi, con passionale delicatezza, inizia a scrostare l’intonaco posticcio.

Ciò che emerge è una chiesa di parole dimenticate ma non perdute, un tempio dedicato al dio del ricordo,

alla dea Lingua Madre, alla genesi dei suoni che per primi furono nomi per il creato di un’epoca.

Quando le pareti di quello che era ciò che non sembrava essere tornano al loro stato originale, tutto è di nuovo al suo posto, tutto è come doveva essere.

Forse la casa del dialetto non può essere più abitata, ma certamente può essere ancora visitata, vissuta, amata. Custodita.

Resta un simbolo di identità, il luogo simbolico dove i genitori e i nonni e nonni dei genitori hanno parlato, e riso, pianto, e amato.

Possiamo rischiare di perdere il suono e la memoria dei fonemi con cui i nostri avi si sono dichiarati il proprio amore? Possiamo rischiare di perdere i nomi di oggetti dimenticati da una lingua che per essere di tutti non può essere di ognuno?

Possiamo guardare ad una casa fatta di mura su cui uno strano di italiano intonacante ha soffocato la nostalgia… o, come la chiama il Prof. De Vita nella toccante poesia che vi apprestate a leggere, “U spinne”?

L’opera viene proposta in occasione della Giornata Internazionale per la Lingua Madre organizzata dall’Unesco. In un’epoca in cui il dialetto rischia l’oblio, farlo diventare nostro patrimonio culturale è dovere sociale ineluttabile. Riportare alla luce, restituire all’etere i suoni e le parole dialettali, è la cura perfetta per ogni “Spinno”, per ogni nostalgia, di ciò che era e non è più, ma che può tornare ad essere. Basta, in fondo, nulla più che dire una parola, ma dirla in dialetto.  ANDREA MAZZOTTA

U SPINNE E' NNA VOCE!!!...

Quanne mi vìnede u spinne

pense sempe u pajìse mìje

Mi pigliede come na maghatìja,

mi pìgliede a picundrìja e non ssacce chi ffà.


Sinte sempe na voce ca mi chiàmede.

U spìnne j'è nna porta chiusa, nna mašcatura,

na varretta, nu caghascìnne. 

U spìnne j'è u vicinanze, l'aria frisca da matina,

i ciucciarille ch’i spurtùni,

i guagnùni ca vàne currijànne i gattarelle.

 

U spìnne j'è nna casa cu cannìzza, nu ggallinàre,nu furne.

Nu pirrupènte, i ntinche du furgiàre,

‘u bancarille e lla mmogha du scarpàre.

A cunsèreve sfusa 'nt'a carta du putujàre,

a pasta maghatagliàte e quille di zìte,

a pitta 'n chiusa ch'i vète.


U spìnne j'è nnu tint' a nnìvere. Mi fa pperde u jàto.

Jède a voce du prìvete e lli corde di campane

a cridenza e llu pàne mpizùte, a ppitìte,

nu cuazùne mprazzicàte.

A sfurtùna cicàte, a narramàte.


U vìghe ca si nni và, scinnede diritte come 'na petra.

Mi fa ddòghe, mi fa chiànge, mi pùngede u pitte

e come nu dillorge, a ttimpe e dd'ore, mi bbùmmede u core. 

                 Piero De Vita - Trebisacce


di Redazione | 23/02/2021

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