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Benché si parli di crisi ormai da due decenni, la nostra società è ancora una società opulenta. Tuttavia, benché la nostra società sia ancora una società del benessere, oggi conosciamo che cos’è la paura e che cos’è il desiderio di salvezza. Nessuno di noi vuole ammalarsi. Lo sappiamo bene. E a ben vedere, anche prima dell’irruzione del virus nelle nostre vite, conoscevamo queste sensazioni: le sensazioni legate alla volontà di salvare se stessi. Sono sensazioni umane – e forse le più umane –, certamente universali e di cui ognuno di noi, a suo modo, ha un’adeguata conoscenza. Ma che cosa significa “salvare l’altro”? Che cosa si prova nel voler salvare qualcuno che non sia me stesso? Quali sensazioni? Quali timori si provano per l’altro?

Il giorno della memoria non dovrebbe essere una giornata di condanna, sebbene noi sappiamo che esistono delle vittime ed esistono dei carnefici. Come allora, oggi. La memoria ha a che fare con il tempo. Il tempo con la morte. Ed è per questo che bisogna domandarsi, insieme a Levinas: “Il tempo è la limitazione stessa dell’essere finito o è la relazione dell’essere finito con Dio?”. Il tempo è l’avvicinarsi della mia fine, o è la strada del pensiero e del cuore che mi porta a Dio? Per rispondere a questa domanda, non occorre domandare con la mente, attraverso il calcolo degli argomenti (non oggi, per carità…) ma imparare dalla Shoah la lezione più importante: saper raccogliere l’appello dell’altro, la chiamata nel suo sguardo. Il divino parla ai profeti in modo diretto, al minimo per mezzo degli angeli. Ma noi non siamo profeti e dovremmo avere l’umiltà di ammetterlo a noi stessi, prima o poi. Allora Dio non ci parla? Certo che sì, e non smette mai di farlo. Parla per mezzo dell’altro, il prossimo. L’incarnazione non è mai avvenuta una volta sola: avviene ogni giorno. Salvare l’altro – se il giorno della memoria solleva in noi questa esigenza, allora saremo sicuramente più vicini all’essenza stessa del tempo. Domenico Licciardi – Movimento per la vita Corigliano-Rossano