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Rossano (Cosenza) - Quel miglio in più


di LETIZIA GUAGLIARDI - Ci sono persone che si limitano a fare il proprio lavoro, giusto il minimo indispensabile, e aspettano di ricevere il compenso pattuito. E ci sono persone, invece, che oltre alle mansioni di propria competenza fanno di più anche se non viene riconosciuto in termini finanziari, almeno non nell’immediato. Ci sono persone che ogni giorno si recano al lavoro senza nessun entusiasmo, non vedono l’ora di ritornare a casa e quando vanno a letto pensano alla nuova (si fa per dire) giornata del solito lavoro noioso e ripetitivo. E ci sono persone, invece, che sono soddisfatte del loro lavoro, si sentono utili e sempre più spronate a dare il meglio di sé.

Cos’è che fa la differenza fra il primo gruppo di persone e il secondo?

Secondo me è tutta una questione di “miglio in più”.

Quando svolgiamo il nostro lavoro, credo che quello che ci fa sentire più gratificati e felici non sia, paradossalmente, il tempo per il quale veniamo pagati (lo stipendio a fine mese) ma quello per il quale non riceviamo nemmeno un centesimo. L’abilità e l’esperienza che acquisiamo facendo diventare il miglio in più un’abitudine, il sentirci utili agli altri, eseguire qualcosa di nostra iniziativa che non ci viene imposto e che serve a migliorare le cose: tutto ciò ha valore quanto e anche più dei soldi che percepiamo.

Qualunque sia il nostro lavoro, fosse anche il più umile, cerchiamo di farlo il meglio possibile, curiamolo nei minimi dettagli perché quello che facciamo “in più” ci procura maggiori benefici dal momento che siamo noi ad avere il controllo della situazione. Non siamo obbligati, lo facciamo perché vogliamo farlo.

Chi fa solo quello che gli viene detto, più o meno come si fa con uno schiavo, si sente avvilito e può anche arrivare a sentirsi depresso, a lungo andare. Ma chi sceglie di fare il miglio in più è il padrone delle sue azioni.

Primo Levi – l’autore di “Se questo è un uomo” – in un’intervista disse:

Ad Auschwitz ho notato spesso un fenomeno curioso: il bisogno del lavoro “ben fatto” è talmente radicato da spingere a fare bene anche il lavoro imposto, schiavistico. Il muratore italiano che mi ha salvato la vita portandomi il cibo di nascosto per sei mesi detestava i tedeschi, il loro cibo, la loro lingua, la loro guerra, ma quando lo mettevano a tirar su muri, li faceva dritti e solidi… non per obbedienza, ma per dignità professionale.

Ecco, io credo che quel muratore, pur essendo un prigioniero, in quei momenti si sentisse un uomo libero. Proprio come può sentirsi libero ognuno di noi, quando percorre il miglio in più.

Questo miglio in più non è una scoperta di oggi perché è menzionato nella Bibbia, in Matteo 5:41.

“E se uno ti costringerà a fare un miglio, tu fanne con lui due.”

La legge romana proibiva di costringere qualcuno a portare carichi per oltre un miglio, si limitava a un solo miglio la durata del trasporto forzato che i soldati romani potevano imporre ai civili dei paesi occupati. Il suggerimento di Gesù di farne due di miglia a noi oggi può sembrare strano ma era comprensibile, invece, a chi lo ascoltava a quel tempo: significava spiazzare l’oppressore, non accettare passivamente quello che era il proprio ruolo e cercare, piuttosto, delle reazioni non violente (anche perché qualunque tipo di rivolta era inutile). Se si veniva costretti a trasportare qualcosa, poiché la situazione non poteva essere cambiata l’oppresso poteva affermare la propria dignità prendendo l’iniziativa di fare un altro miglio disorientando così il soldato con la sua reazione inaspettata e costringendolo a prendere delle decisioni a cui non era per niente abituato. In pratica, si “disarmava” un uomo armato! Questo può essere un buon esempio per noi: rispondere alle ingiustizie e ai soprusi con creatività per mantenere (o riacquistare) dignità e libertà.

Fare un miglio significa adattarsi, farne due significa scegliere.

A noi…la scelta!


di Letizia Guagliardi | 05/07/2023

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